Le parole inglesi più usate in italiano, molte quelle ormai nella comunicazione di ogni giorno.
Tra le lingue straniere, l’inglese oggi è senza dubbio quella più presente nel nostro vocabolario (inteso sia in senso fisico, sia come dizionario mentale dei parlanti di una data lingua). Ciò non ci stupisce, tenendo conto del fatto che si tratta della lingua più parlata e più usata nel mondo del lavoro. Molte sono quindi le parole inglesi nell’uso comune.
Ricordiamo che in altri tempi era il francese a essere non solo molto presente nel dizionario italiano, ma anche conosciuto, letto, parlato in particolari contesti dalle classi sociali medio-alte. Ma in questo caso essa costituiva l’obbligato coronamento dell’appartenenza a un particolare status sociale: l’educazione delle classi alte non poteva prescindere dall’apprendimento di questa lingua.
Che cos’è un prestito linguistico
Per comprendere, in generale, la ragione e la genesi delle parole straniere nel nostro dizionario, è importante occuparci innanzitutto del concetto di prestito linguistico. Il prestito linguistico, detto in modo semplice, è una parola, struttura sintattica o fonema di un’altra lingua che per qualche ragione entra nel patrimonio linguistico di una comunità. Le ragioni possono essere varie: la contiguità territoriale di due comunità linguistiche, fattori politici o conseguenze di flussi migratori. Il prestito può essere “integrale”, cioè totalmente fedele alla lingua della comunità originaria, senza alcuna modifica della forma (ad esempio: “pub”), oppure può essere “adattato”, cioè sottoposto, nel passaggio da una lingua all’altra, a una modifica nella forma (ad esempio: “lanzichenecco” per “Landsknecht”).
Il prestito linguistico viene detto anche “forestierismo”.
Le parole inglesi più presenti
Tra le tantissime parole presenti nel dizionario italiano, è utile in questa sede scegliere quelle più note e più usate in quanto ciò ci dà la misura del mutamento lessicale sempre in atto soprattutto a causa dei mutamenti sociali.
In tempi ipertecnologizzati, viene subito da citare termini del campo della tecnologia: a parte parole già note da tempo come hardware, software, RAM, più recente è l’invasione dei termini smartphone, social network, communnity e soprattutto selfie, parola, quest’ultima, che inizia a circolare dal 2000.
La confidenza col costume rafforzata dai mass media ci porta al secondo campo semantico, la moda: outfit, trendy, trendsetter, cool, fashion tra le più usate.
Cinema e musica ci offrono un’altra nutrita lista di termini: B movie, sequel e prequel, spin-off, soundtrack, videoclip, live, star, show.
Ci sono poi le parole del campo del lavoro: mission, deadline, meeting, freelance, part time e full time, manager, CEO.
Infine una lista di parole varie provenienti da campi diversi: abstract, trash, teenager, la formula all you can eat, drink e la recente parola riferita all’ultima generazione, Millennials (non può passare inosservata la presenza, qui, del suffisso plurale -s: è una nostra regola, infatti, quella di non declinare al plurale gli anglicismi).
Come si può vedere, ci sono parole che potremmo considerare classiche, in quanto sono in uso da tempo e sopravvivono alle mode, e ci sono parole molto in voga oggi, magari destinate anche a sparire in futuro.
Itang’liano: quando l’uso di anglicismi è evitabile abuso
In un articolo su «La Stampa» del 17 febbraio 1978, Primo Levi dedicò ampio spazio a un libro singolare scritto da un autore allora misterioso: Parliamo itang’liano. Ovvero le 400 parole inglesi che deve sapere chi vuole fare carriera (Rizzoli, 1977) di Giacomo Elliot. Levi lo considera “un libro stimolante e curioso” e così definisce l’itang’liano che ne è oggetto:
“L’itangliano […] è quel gergo italo-inglese, o piuttosto italo-statunitense, che si va rapidamente diffondendo in vari ambienti, ed in special modo nell’ambiente in cui l’autore sembra essere di casa, quello del «management», della direzione aziendale, e ancor più particolarmente nelle aziende attive nei campi tecnologicamente più avanzati”.
Pare che Giacomo Elliot sia Roberto Vacca, matematico, ingegnere, scrittore, nonostante quest’ultimo, nel suo Consigli a un giovane manager (Einaudi, 1999) – da cui abbiamo citato l’articolo di Levi –, affermi in prefazione che il libro è un omaggio proprio all’amico Elliot, scomparso in mare nel 1985.
A prescindere dai dubbi circa l’identità di Elliot, resta un fatto che entrambi i libri affrontano il medesimo problema e sono strutturati in maniera simile: il problema è l’abuso di termini anglofoni tra i manager, la struttura è in due parti: la prima, breve, è una specie di introduzione in cui si definisce l’itangliano e si esplicitano i rischi del suo abuso (non essere capiti, pronunciare male le parole), la seconda, lunga, un mini-dizionario delle parole inglesi usate nel campo manageriale con pronunce, definizioni, esempi e tutto quanto siamo soliti trovare in un vocabolario.
Il tono di entrambi i libri è tra il serio e l’ironico, anche a sottolineare che non nascono con l’intento della battaglia purista, come ribadisce lo stesso Levi il quale non ignora le leggi della linguistica, sa bene che la vitalità di una lingua si misura anche nella mescolanza con altre lingue.