Traduttori famosi: Luciano Bianciardi - BWLitBlog e Traduzioni

Traduttori italiani famosi: Luciano Bianciardi

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Traduttori famosi: Luciano Bianciardi - BWLitBlog e TraduzioniLuciano Bianciardi (1922-1971) è stato un intellettuale eclettico e coerente, la sua interpretazione del secondo dopo guerra italiano, con i prodromi e lo sfarzo del miracolo economico, rimane una pietra miliare del dissenso, di una visione che si allarga nello spazio e nelle epoche, verso i temi della sostenibilità e dell’alienazione come fattore intrinseco del capitalismo.

Nacque a Grosseto, e la sua identità in termini geografici è il primo propulsore di una ricerca che è anche posizionamento sociale e politico. Dopo aver insegnato materie letterarie in una scuola media e in un liceo, si dedicò alla ristrutturazione della biblioteca comunale, resa inagibile da un’alluvione nel 1945. Qualche anno dopo diventerà direttore della biblioteca stessa, e da uomo d’azione si proporrà come punto di riferimento imprescindibile per la vita culturale e lo sviluppo civile della sua città.

Protagonista del suo tempo, Bianciardi individua il suo territorio, la Maremma, come materia da sviluppare e di cui farsi carico. In quel lembo di Toscana risultavano plastici il disagio sociale, l’abbandono, l’isolamento rispetto alle principali vie di comunicazione, e soprattutto erano palesi le mire predatorie di una certa classe imprenditoriale. In un corposo reportage (poi confluito nel libro I minatori della Maremma, scritto in collaborazione con Carlo Cassola) testimoniò le condizioni di lavoro disumane dei minatori di Ribolla (in cui un’esplosione di grisou, nel 1954, causò la morte di quarantatré operai), amplificò le rivendicazioni sindacali e le istanze di una forza lavoro colonizzata e sfruttata.

Proprio nel suo romanzo più celebre, La vita agra, pubblicato nel 1962, lo scrittore e traduttore toscano fa muovere il suo protagonista nella città “timone” del boom economico italiano. Nel corpo di una Milano ostile, un giovane mestierante della cultura, traduttore che arranca per terminare i suoi incarichi a cottimo, progetta di radere al suolo, letteralmente, la sede di una società ritenuta responsabile di un tragico incidente avvenuto in una miniera in Toscana. L’io narrante è obliquamente biografico, un bombarolo che non concepisce altre soluzioni che non siano radicali, di rottura rispetto a una concezione inquinata del progresso e della crescita sociale. Il romanzo, il quarto dato alle stampe da Bianciardi, ottenne fin da subito un eccellente successo di vendite (5.000 copie in poco più di una settimana), suggellato da una trasposizione cinematografica diretta da Carlo Lizzani e con protagonista Ugo Tognazzi. Al riscontro in termini commerciali, alla notorietà, si affiancarono delle analisi critiche intransigenti, perlopiù incentrate sui riverberi paradossali, apocalittici del romanzo, interpretazioni che non mancarono di alimentare il disincanto dell’autore, l’idea che l’uomo non possa che soggiacere per inerzia alle leggi della produzione, di un’autorità assodata. “Finirà che mi daranno uno stipendio mensile solo per fare la parte dell’arrabbiato italiano. Il mondo va così – cioè male. Ma io non ci posso fare nulla. Quel che potevo fare l’ho fatto e non è servito a niente.”

Il traduttore idealista segue le orme di Bianciardi nella cosiddetta capitale morale d’Italia, una perlustrazione più che una scelta professionale, e dalla metà degli anni ’50 in poi l’autore de La vita agra condurrà un paso doble memorabile con il capoluogo lombardo, cogliendone sfumature agrodolci, dal romantico-sentimentale all’espressione straniante, tradizionalmente caliginosa e disillusa.

Si avviarono gradualmente le prime collaborazioni, fino all’ingresso nella neonata casa editrice di Giangiacomo Feltrinelli, sodalizio che proseguì fino al 1957, anno in cui Bianciardi fu licenziato dalle mansioni di redattore. Il periodo preso in considerazione (da infiltrato nel rigido meccanismo editoriale meneghino) è caratterizzato dall’isolamento intellettuale, da pressanti difficoltà economiche, dal fallimento del suo matrimonio e dall’inizio di una nuova relazione. Per sostenersi (nel bailamme della redditività a tamburo battente) cominciò a svolgere il lavoro di traduttore dall’inglese, occupazione che per il resto della vita fu la sua principale, e che constò di circa ottanta opere traslate nella versione in lingua italiana. La scarsa autonomia concessagli dalle case editrici non impedì a Bianciardi di delineare un proprio percorso, in fatto di categorie tematiche e di sensibilità autoriali. La narrativa americana risultò al centro dei suoi interessi, delle sue passioni: contribuì a far conoscere nel nostro paese scrittori come John Steinbeck, William Faulkner, Jack London, Saul Bellow, Irwin Shaw, Tennessee Williams, e in alcuni casi la sua attività sfociò nella genesi di veri e propri casi editoriali (le versioni di Tropico del Cancro e di Tropico del Capricorno di Henry Miller, epocali, e la “scoperta” degli scrittori della beat generation, Jack Kerouac su tutti).

Scrive il poeta, traduttore e saggista Franco Buffoni: “Bianciardi è un traduttore che adatta il proprio stile a quello dell’autore che va traducendo, oppure che tende a imporre il proprio stile di scrittura? Né l’uno né l’altro, crediamo di poter rispondere abbastanza decisamente. Bianciardi istintivamente pone il proprio stile in rapporto dialettico con lo stile dell’autore che va traducendo, senza imporre nulla, ma anche senza farsi imporre nulla.”

Sul versante parallelo della letteratura, per Bianciardi, si disegnò la funzione artigianale, di cura rivolta a opere di saggistica, a collaborazioni con testate giornalistiche e con produzioni televisive e cinematografiche. Dalla storiografia (da sottolineare la sua predilezione per il Risorgimento) alla divulgazione scientifica, dalle traduzioni di biografie (su Edith Piaf, su Salvatore Giuliano…) all’elaborazione di antologie scolastiche, il gusto dello scrittore toscano si manifestò immancabilmente in filigrana, mettendo in atto uno scambio fruttifero e continuo fra ispirazione e applicazione quotidiana nel lavoro.

Il pensiero di Bianciardi è radicato nel tessuto antropologico italiano, sviscera contraddizioni che in quegli anni (dal primo dopo guerra alle albe del sessantotto) qualcuno si attivò a nebulizzare, a rendere opalescenti. La crescita infinita, sorta di coazione a ripetere, il conformismo coatto: segnali che nel contemporaneo hanno assunto la conformazione di sistemi solari, di pressioni algoritmiche. Viene da pensare che Luciano Bianciardi già conosceva l’esito, soltanto lo ossigenava di ironia dolente, di furore malcelato. “Tutto quello che c’è di medio – scriveva ne La vita agra – è aumentato dicono contenti. E quelli che lo negano propongono però anche loro di far aumentare, e non a chiacchiere, le medie; prelievo fiscale medio, la scuola media e i ceti medi. Faranno insorgere bisogni mai sentiti prima. […] A tutti. Purché tutti lavorino, purché siano pronti a scarpinare, a fare polvere, a pestare i piedi, a tafanarsi l’un con l’altro dalla mattina alla sera.”