“I vagabondi del Dharma” di Jack Kerouac
Seguito ideale di “Sulla strada”, a più di 60 anni dalla pubblicazione “I Vagabondi del Dharma” ha ancora il potere di suscitare riflessioni, che riguardano lo stile di scrittura ma anche il confronto fra il tempo presente e gli anni dell’epopea beatnik, per certi versi sgangherata, illusoria, spudoratamente sincera.
“Il silenzio è così intenso che riesci a sentire il rombo del tuo sangue nelle orecchie ma molto più forte di questo suono è il rombo misterioso che ho sempre identificato col rombare del diamante della saggezza, il misterioso rombo del silenzio stesso, un grande che ricorda qualcosa che ci sembra di aver dimenticato nella tensione dei nostri giorni fin dalla nascita…”
Ray Smith sale su un treno merci, vettore simbolo della consapevolezza, e tra le infinite possibilità offertegli dal vagabondaggio sceglie quella del percorso iniziatico, più che mai giustificato in un contesto sociale e politico in cui il libero arbitrio e l’autodeterminazione vengono derubricati a intralcio, a velleità antieconomica.
Incontrerà lungo il cammino il suo “maestro”, Japhy Ryder, al contempo uomo concreto e disincantato, mediatore nel bombardamento di stimoli e suggestioni, che vanno dalle meditazioni en plein air alle ritualità orgiastiche.
Vitalismo, incoerenza, sazietà di vino, eppure nel romanzo si avverte l’urgenza morale, assecondata dalla penna di Kerouac, ritmata come un assolo bebop, mentre gli eroi del Dharma intraprendono la scalata del monte Matterhorn, simbolo di un approdo alpino eternamente alla portata.
“Saltare di roccia in roccia senza mai cadere, con un bel peso sulle spalle, è più facile di quanto non sembri; non si può cadere quando si è presi dal ritmo della danza…”
“Strade blu – un viaggio dentro l’America” di William Least Heat Moon
Per chi ha dimestichezza con la fotografia, l’ora blu rappresenta un’occasione da cogliere con entusiasmo e parsimonia. È nella manciata di minuti che precedono l’alba, o che danno il ben servito al tramonto, che il cielo assume una colorazione intensa, blu profondissimo e atavico, uno fenditura nel tessuto di luci artificiali.
Nel romanzo autobiografico di William Least Heat Moon il nitore atmosferico e dei paesaggi fa da controcanto all’inquietudine esistenziale di un ex insegnante di inglese del Missouri, che a bordo di un furgone romanticamente inaffidabile intraprende un viaggio dentro l’America e le sue contraddizioni.
L’uomo alla ricerca di se stesso, e di una purezza minacciata dagli eventi, per tre mesi inanella incontri, riflessioni e territori, abbraccia le possibilità offertegli dalla strada, dal Missouri al Missouri, attraverso le Caroline, il Texas meridionale, lo stato di Washington, il Montana e il New England.
Un licenziamento inaspettato e la moglie – da cui cerca conforto – che gli comunica di essere oramai legata a un altro uomo: da queste sconfortanti premesse il protagonista di “Strade blu” attinge un desiderio di riscatto, che via via si specifica in un approfondimento psicologico, in un perdersi propedeutico all’esplorazione di nuove opportunità.
“Quella notte, mentre mi rigiravo nel letto chiedendomi se avrei fatto prima a prender sonno o ad esplodere, ebbi appunto l’idea. Un uomo che non riesce a far quadrare le cose può sempre levare le tende. Può mollare tutto cercando di tirarsi fuori dalla solita vita. Può mandare al diavolo il tran tran quotidiano e correre il rischio di vivere il momento secondo le circostanze…”
Il romanzo (pubblicato nel 1982, dopo svariati rifiuti e un lungo lavoro di messa a punto) testimonia anche l’appropriazione – da parte dell’autore – delle proprie origini pellerossa, un calarsi appassionato nell’humus genealogico per meglio comprendere e sublimare il presente.
“Chiamatemi Heat Moon il Minore. Mio padre si fa chiamare Heat Moon, ossia Luna del Caldo, e mio fratello maggiore Piccolo Heat Moon. […] Per i Sioux, la Luna del Caldo corrisponde al settimo mese, un periodo conosciuto anche come Luna di Sangue – credo a causa del cupo colore rossastro che la luna ha in piena estate.”
“Lovecraft Country. La terra dei demoni” di Matt Ruff
Il quotidiano The Guardian ha definito il libro di Matt Ruff “un horror dalle tinte pulp, sagacemente sovversivo.” Nulla da obiettare, naturalmente, se non che la penna tellurica dello scrittore statunitense è capace di stravolgere ogni possibile catalogazione, e ciò che per alcuni può apparire sovversivo per altri può a buon titolo rientrare in un modello plurisecolare. Sta di fatto che “Lovecraft Country. La terra dei demoni”, creazione purissima o segmento di una titolata genia, ha la capacità di attrarre il lettore e condurlo in una dimensione in cui l’irreale e l’ipotetico rendono solfurea la normalità.
La vicenda si svolge a metà degli anni ’50, e il viaggio intrapreso dal protagonista è problematico, sia per delle contingenze storiche, assodate, che per degli intralci esoterici connessi alla propria origine familiare.
Atticus Turner, ventiduenne afroamericano veterano della guerra in Corea, insieme all’amato zio George e all’amica d’infanzia Letitia, si mette in viaggio a bordo di una Cadillac Coupé del ’48 per raggiungere suo padre Montrose, che una mattina ha lasciato in casa uno strano biglietto in cui fa cenno alla propria destinazione. A partire da Jacksonville c’è da attraversare il New England, l’America dei “bianchi” dove un ragazzo nero può diventare un bersaglio mobile, e i più che prevedibili episodi di razzismo, nel dipanarsi della vicenda, si intrecciano con dei fatti derivati da leggende inquietanti, di cui lo zio George è depositario.
È la tenuta del signor Braithwhite, proprietario di un castello dove un’antenata di Atticus aveva vissuto come schiava, la tappa finale del viaggio, il luogo dove una setta segreta, chiamata Ordine dell’Antica Alba, ha tutta l’intenzione di annientare la discendenza dei Turner.
Colpi di scena, il sapiente accostamento di verosimiglianza, sfrontatezza horror e analisi sociale, fanno emergere il romanzo di Ruff dal pelo d’acqua della narrativa di genere, dando vita a un perfetto meccanismo di intrattenimento che rivede e corregge lo stilema on the road, senza per questo dimenticare la lezione dei grandi maestri del “brivido”.
Da “Lovecraft Country. La terra dei demoni” è stata tratta una serie TV prodotta da HBO.
“Archivio dei bambini perduti” di Valeria Luiselli
Un uomo e una donna affrontano un viaggio, obiettivo lo stato dell’Arizona. Insieme a loro i due figli, nati da precedenti relazioni, e alle loro spalle si dissolve tutto ciò che ha contribuito a saldarli in un progetto familiare. L’uomo e la donna sono entrambi documentaristi, e le domande che si pongono, apparentemente antitetiche, finiscono per delineare una mappa credibile delle loro priorità.
Il padre è interessato all’epopea dei guerrieri apache, intende visitare il luogo in cui sono stati sconfitti dall’esercito americano, mentre la madre vuole osservare con i propri occhi e documentare il dramma dei bambini perduti, protagonisti loro malgrado della cosiddetta Border Crisis, fenomeno migratorio che quotidianamente porta decine di bambini dell’America “povera” a sfidare le guardie di frontiera per raggiungere gli Stati Uniti.
Il punto di arrivo, in fin dei conti, è comune: disegnare un affresco dell’America odierna, in cui i misfatti del passato – schiavitù e terre promesse da conquistare – si innestano alle emergenze generate dalla globalizzazione e dalla sconfessione di valori e diritti inalienabili.
In movimento, e nelle soste, dentro motel sperduti, sui margini del deserto, a braccetto con i propri fantasmi, Valeria Luiselli – scrittrice messicana cresciuta in Sud Africa, attualmente residente a New York – fa vibrare un romanzo a più voci e più suoni, che improvvisamente deflagra per poi recuperare una dimensione lineare, pur sempre nella complessità dell’impianto narrativo.
“Archivio dei bambini perduti” è senza alcun dubbio un’opera importante, ambiziosa, che nell’anno della sua uscita, il 2019, è stata acclamata per la sua originalità, per il suo essere compenetrata alla realtà e alla sua estensione sotterranea.
“Viaggio con Charley. Alla ricerca dell’America” di John Steinbeck
Un libro di John Steinbeck da riscoprire, intessuto di situazioni che l’acutezza del grande scrittore rende memorabili.
Per chi vuole assaporare le atmosfere di un’America sullo spartiacque degli anni 60, “Viaggio con Charley” rappresenta il riferimento perfetto, in un avvicendarsi di incontri e conversazioni che toccano il quotidiano e i grandi temi del vivere comune. Non stupisce trovare, fra questi ultimi, le questioni legate al razzismo, al consumismo e all’inquinamento dei territori, come se l’urgenza della visione letteraria funzionasse da filo conduttore tra epoche diverse, dalla metà del secolo scorso alla contemporaneità.
Steinbeck si mette in viaggio alle soglie dei sessant’anni su un furgoncino chiamato Ronzinante, per tracciare chilometro dopo chilometro una sorta di testamento spirituale, accompagnato dal fido barboncino Charles Le Chien, detto Charley.
Sulla strada c’è modo di respirare la realtà distillata e liberata dalle sovrastrutture mentali, per ridare ossigeno alla propria ispirazione e individualità: in circa tre mesi lo scrittore di Furore e La valle dell’Eden, premio Nobel nel 1962, percorre diecimila chilometri raggiungendo la bellezza di 33 stati, in un gran tour che, a partire dallo stato di New York, toccherà l’area settentrionale del Maine, il Midwest e la costa occidentale fino al Texas e la Louisiana.
E affidarsi alla strada è un atto di gratitudine di Steinbeck, verso se stesso e il paese che ha contribuito a formarlo come uomo e cittadino. Dalla scrittura, a volte riflessiva, in altri momenti intrisa di candore e ironia, emerge questa duplice lettura, personale e politica, la consapevolezza di essere stato un testimone affidabile delle linee d’ombra che attraversano gli Stati Uniti e che ne modellano la multiforme identità.
La distanza, il succedersi di città e paesaggi, gli incontri con gente comune, diventano così criterio della dimensione umana, in anni complicati, di illusioni e contrapposizioni ideologiche (basti pensare all’elezione a presidente degli Stati Uniti di John F. Kennedy, alla Guerra Fredda con con la crisi dei missili di Cuba e alla guerra in Vietnam).