I dialetti: un patrimonio linguistico da salvaguardare
L’Italia è uno stato la cui unità, come è noto, è recente. Prima dell’Ottocento, infatti, è stata soggetta a una continua frammentazione territoriale e politica a causa di processi storici che dall’epoca romana l’hanno vista al centro degli eventi – basti pensare al conflitto che per secoli ha interessato l’Impero e il Papato, quest’ultimo un vero e proprio Stato con sede a Roma, in Italia.
La frammentazione si è riversata, come è ovvio, sull’uso della lingua: l’unità linguistica, si sa, è una conquista ancora più recente, laddove da sempre la nostra storia contempla una molteplicità di lingue corrispondente alla molteplicità delle corti, delle città, dei piccoli stati, dei popoli – anche stranieri.
I dialetti, da questo punto di vista, permangono anche come una testimonianza viva – hanno resistito, infatti, all’unità linguistica faticosamente raggiunta, quasi fossero lingue seconde – di un paese a lungo caratterizzato da confini e da conflitti interni oltre che da dominazioni straniere. Ma non è solo l’alto valore di testimonianza viva a fare dei dialetti un patrimonio linguistico e culturale eccezionale e assolutamente da salvaguardare.
Dialetto: etimologia e storia della parola
La parola italiana «dialetto», come la medesima parola degli altri stati (l’inglese «dialect» attestato nel 1551, il francese «dialecte» del 1556, lo spagnolo «dialecto» del 1604 e il tedesco «Dialekt» del 1634), deriva dalla parola latina «dialectos» (alla greca) / «dialectus» (alla latina). Il greco «hē diálektos» significava in origine “conversazione, colloquio, discussione”, poi fu acquisito dai romani – come prestito linguistico – col significato di “parlata locale di valore letterario”, coerentemente al valore che veniva tributato, in ambito letterario, alle opere in dialetto ionico o eolico.
Solo nel Rinascimento la parola rientra nell’italiano grazie allo studioso umanista Benedetto Varchi (1503-1565) che la usa nel dialogo Hercolano (1570) sempre in riferimento, però, alle varietà letterarie del greco antico, mentre per le varietà del volgare erano usati i termini «volgare» e «idioma». Tuttavia nello stesso periodo la parola inizia a essere usata anche con un significato simile a quello di oggi.
Cosa si intende per dialetto: le difficoltà di giungere a una definizione
Nel Dizionario di linguistica e di filologia, metrica, retorica (Einaudi, 2004) diretto dal linguista e critico letterario Gian Luigi Beccaria, sono riportate, indipendentemente dall’esattezza o meno delle definizioni, quattro accezioni dalle diverse sfumature:
1 – il dialetto è tale in contrapposizione alla lingua;
2 – il dialetto è una delle diverse forme che può avere una lingua calata nell’uso popolare;
3 – il dialetto è la lingua di una località;
4 – il dialetto è la lingua di territori più vasti.
Nel corso del tempo il dialetto è stato considerato sia una lingua minore – e ciò implica una discutibile valutazione di merito – sia una lingua a sé.
Il tratto distintivo del dialetto su cui c’è concordanza generale tra gli studiosi è il suo stretto legame con i luoghi: il dialetto è legato a un luogo, viene parlato dalla relativa comunità, può avere anche una sua tradizione letteraria.
E tuttavia permangono delle peculiarità che relegano il dialetto a lingua minore e di poco prestigio, peculiarità legate principalmente a questioni socioculturali – il dialetto è spesso la lingua delle classi sociali più basse, o della campagna in contrapposizione alla città, ecc. Lo stesso uso che se ne fa lo conferma: è usato come una lingua colloquiale, confidenziale, in forma orale, senza una particolare sorveglianza o ricercatezza.
Cosa intendiamo per dialetto in Italia
Limitando il discorso all’Italia, ci è più facile pervenire a una definizione semplice e univoca. Partendo dal presupposto che il dialetto è una lingua, possiamo definirlo per esclusione: dialetti sono le tante lingue romanze parlate in Italia che non sono l’italiano.
Tra questi vanno distinti dialetti che sono minoranze linguistiche storicamente riconosciute, come è il caso, ad esempio, del friulano o del sardo, che in quanto tali godono anche di possibilità non comuni: finanziamenti, insegnamento nelle scuole, possibilità di essere usati anche nella comunicazione pubblica, laddove gli altri dialetti, come abbiamo visto, sono perlopiù relegati all’uso informale nell’ambito di comunità di parlanti consapevoli di dover ricorrere all’italiano in determinate circostanze – soprattutto in quelle ufficiali, formali, o per comunicare con chi non appartiene alla propria comunità.
Permane una confusione terminologica: si tende a confondere il dialetto con il vernacolo. Per definizione il vernacolo è una parlata usata in un centro o in una zona limitata, una parlata popolare, locale, e riguarda più spesso le varietà linguistiche toscane o dell’Italia centrale.
Cos’è la dialettologia
La dialettologia è il ramo della linguistica che si propone, con approccio scientifico, di studiare i dialetti nel loro contesto sociale e storico. Essa nasce nel 1873, quando fu pubblicato il primo numero di «Archivio glottologico italiano», rivista fondata dal linguista e glottologo Graziadio Isaia Ascoli (1829-1907).
La dialettologia tiene conto delle difficoltà metodologiche che pone lo studio dei dialetti, motivo per cui non può ricorrere a un metodo rigido e univoco e valuta aspetti diversi: quello geografico, storico-culturale, sociologico, antropologico e etnologico.
Quali sono i dialetti parlati in Italia
Accettando la confusione tra dialetto e lingua, e cioè partendo dalla constatazione che i dialetti sono lingue romanze, in Italia è possibile effettuare una classificazione complessa in gruppi linguistici in base ai territori di appartenenza. Siamo consapevoli che dal punto di vista linguistico risulta di volta in volta un problema, per le varietà che elenchiamo qui di seguito, usare indifferentemente i termini dialetto e lingua.
– Lingue gallo-retiche: romancio (parlato nel cantone Grigioni, in Svizzera); ladino (parlato in area dolomitica: Alto-Adige, Trentino, Veneto e Friuli-Venezia Giulia); friulano (province di Gorizia, Pordenone, Udine e alcuni comuni di Venezia).
– Gruppo galloitalico: piemontese (contempla le seguenti varietà: torinese, cuneese, astigiano, langarolo, roerino, alto monferrino acquese, basso monferrino casalasco, alessandrino, vercellese, biellese, valsesiano, canavesano); lombardo (milanese, brianzolo, lomellino, bustocco, legnanese, comasco, varesotto, lecchese, ticinese, valtellinese, chiavennasco, lodigiano, verbanese, bergamasco, cremasco, soresinese, alto mantovano, bresciano, trentino occidentale, ossolano, bormino, livignasco, alto camuno, cremonese); ligure (ligure orientale: spezzino e lunigianese; ligure genovese; ligure centro-occidentale; ligure occidentale: intemelio e monegasco; ligure alpino o roiasco; ligure dell’Oltregiogo); emiliano (carrarese e dialetto della Lunigiana, pavese e oltrepadano, piacentino e bobbiese, tortonese, modenese, carpigiano, mirandolese e frignanese, reggiano, parmigiano, casalasco-viadanese, bolognese, ferrarese, mantovano e basso-mantovano); romagnolo; galloitalico di Sicilia; galloitalico di Basilicata.
– Gruppo veneto: veneziano, veronese, trevigiano, feltrino-bellunese, bellunese, pedemontano-trevigiano, istro-dalmata, ecc.
– Istrioto.
– Gruppo toscano: fiorentino, senese, pisano-livornese, lucchese, pistoiese, valdinievolino, elbano, aretino, amiatino, basso garfagnino-alto versiliese, alto garfagnino, barghigiano, vernacoli “grigi” (viareggino, pratese, pesciatino, casentinese, alto valdesano, volterrano, grossetano-massetano, chianino, versiliese), còrso (la lingua romanza della Corsica e in parte della Sardegna: còrso cismontano, zona di transizione, còrso oltramontano, gallurese, castellanese, sassarese).
– Gruppo italico mediano: dialetti umbri (perugino, eugubino, altotiberino; orvietano; dialetti della zona centro-orientale: tra Spoleto, Foligno, Assisi, Gualdo Tadino; dialetti della zona sud-orientale: Norcia e Cascia); dialetti marchigiani (settentrionali: pesarese, fanese, urbinate, senigalliese; centrali: anconitano, osimano, filottranese, jesino, fabrianese, a sud il maceratese-fermano-camerte; meridionali: dialetto ascolano, sambenedettese, ripano); dialetto romanesco; dialetti della Tuscia Viterbese (sottogruppo nord-orientale o falisco; sottogruppo viterbese; sottogruppo occidentale); cicolano-aquilano-reatino; dialetto ciociaro.
– Gruppo italico meridionale: dialetti abruzzesi (area abruzzese adriatica: teramano-atriano, pennese, pescarese, chietino orientale, lancianese, vastese; marsicano; peligno; dialetti dell’area teramano-ascolana; area vibratiana; area altosangrina); dialetti molisani e croato molisano; dialetti pugliesi centro-settentrionali (dialetti della Daunia, dei Monti Dauni, del Tavoliere, del Gargano, della Terra di Bari, tarantino, cegliese, ostunese); dialetti campani (dialetto laziale-meridionale; napoletano, beneventano, irpino, cilentano); dialetti lucani (area appenninica-lucana, area apulo-lucana, area metapontina, area arcaica calabro-lucana, dialetto cilentano); dialetti calabresi settentrionali (area cosentina).
– Gruppo meridionale estremo: siciliano (occidentale: incluso il palermitano; metafonetica centrale; metafonetica sudorientale; non metafonetica orientale; messinese; reggino; pantesco; eoliano); salentino (varietà settentrionale, centrale e meridionale); calabrese centro-meridionale.
– Gruppo sardo: algherese, romaniska, tabarchino, veneto, gallurese, turritano o sassarese.
Perché è importante salvaguardare il patrimonio dei dialetti
Tenuto conto della eccezionale molteplicità delle varietà linguistiche o dialetti, si deve prendere atto anche del naturale processo di estinzione di alcune parlate. Le varietà linguistiche sono portatrici di storia e di cultura, è per questo che in Italia, anche tramite interventi legislativi e fondi consistenti, si incentiva lo studio e si prova a favorirne il recupero e la sopravvivenza.
Molti dialetti hanno un particolare valore culturale perché sono entrati nel nostro repertorio poetico, teatrale, letterario.