“Ci sono notti che non accadono mai. Canto a fumetti per Alda Merini” di Silvia Rocchi (BeccoGiallo, 2019).
Nell’opera a fumetti di Silvia Rocchi la poetessa dei Navigli è disegnata senza volto, dato sensoriale che permette al lettore di inoltrarsi in una ricca invisibilità.
C’è un’Alda Merini quotidiana, fra le mura del suo appartamento e nelle strade di Milano, e un’Alda Merini inquieta, che percorre sentieri accidentati, dove è facile incontrare amore, violenza e pietà.
In un avvicendarsi di tagli e soluzioni grafiche si realizza una biografia in grado di compendiare la complessità, di illuminare vertigini esistenziali. È la qualità sovrannaturale della poesia, di mediare il contesto con la visione assoluta, e il disegno – nel caso del volume edito da BeccoGiallo – supporta questa infusione, offrendocela come intimità dello sguardo.
La vita della poetessa (conclusasi nel 2009) può ridursi a uno sviluppo lineare: dalle “prime ombre della mente”, comparse quando Alda aveva sedici anni, prologo a crisi e ricoveri in strutture psichiatriche, all’apoteosi sorniona della piena maturità, quando la notorietà e il florilegio di pubblicazioni la elevarono a icona pop, a cronista e scultrice del proprio sé. Ma è in questa progressione, inevitabile e accomodante, che si celano le sfaldature, i germogli tenaci che richiedono cura, una narrazione e un disegno esaustivo. Alda Merini e la ricerca, inappagabile, di una pace interiore: risiede su questo livello rappresentativo l’opera di Silvia Rocchi, omaggio alla poetessa capace di intonare frammenti di anima, e di infinito, per ognuno di noi.
“Audrey Hepburn. La farfalla di ferro” di Alessandro Ruta (DIARKOS, 2021).
Nel bailamme di figurine Instagram la definizione di “diva” rischia di annacquarsi, e di fatto rientra in quelle dimensioni fluide, accaparrabili e assegnabili in base alle tendenze del momento.
Parlare di Audrey Hepburn (1929-1993), o forse solo ammirarla nelle pose o nelle immagini di scena, catapulta nell’immaginario senza tempo, serve a stabilire delle categorie di eccellenza, o forse soltanto a sciogliersi in un malinconico “com’era” o “come eravamo”.
Quindi ben venga una biografia sull’attrice che incarna la lievità dello stile, dell’eleganza, per distoglierci dal presente e smuovere un po’ di polvere da un ritratto dato per acquisito, concessoci – e gliene saremo per sempre grati – dall’industria cinematografica.
Nasce a Bruxelles Audrey Hepburn, da una famiglia colta e agiata, che però non la preserva da una certa anaffettività, nello specifico di matrice paterna. Alle incomprensioni in ambito privato si aggiunge poi lo scoppio della seconda guerra mondiale, evento che costringe la giovane Audrey a fare i conti – letteralmente – con l’indigenza e la fame. In ogni caso, caparbia come una farfalla di ferro, lei prosegue a coltivare il sogno di diventare ballerina, fin quando non avviene l’incontro che indirizzerà per sempre la sua carriera: a notarla è la scrittrice Colette, allora ottantenne, che individua nella ragazza filiforme e aggraziata le qualità per interpretare il ruolo da protagonista nella commedia “Gigi”.
In seguito la scalata verso il successo non incontrerà ostacoli, a cominciare dall’iconica interpretazione della principessa Anna nel film “Vacanze romane”, che le consentirà di vincere – a poco più di vent’anni – un Oscar come miglior attrice protagonista.
Eppure – ed è qui che la biografia scritta da Alessandro Ruta diviene rivelatrice – i traguardi come artista non esauriscono il percorso esistenziale della grande diva. Da scoprire, pagina dopo pagina, i momenti di fragilità, le passioni, e un altruismo innato che la porterà, una volta ritiratasi dalle scene, ad assumere ruoli attivi in istituzioni umanitarie, divenendo anche ambasciatrice dell’UNICEF.
“Marie Curie. Una vita” di Susan Quinn (Bollati Boringhieri, 2013).
Precorritrice, visionaria, Marie Curie (1867-1934) non è soltanto la donna geniale che tutti conosciamo, è anche uno dei maggiori simboli del riscatto femminile in una società calcificata dai pregiudizi. È la prima persona a ricevere due Premi Nobel: per la fisica, nel 1903, in compartecipazione con il marito Pierre, e per la chimica, nel 1911, ma è anche la ragazza che per poter studiare (nella sua natia Polonia gli studi superiori erano preclusi alle donne) si trasferisce a Parigi, dove si laurea nel 1893, avviando una carriera che ha come tappa epocale l’assegnazione di una cattedra (prima donna in assoluto) all’Università della Sorbona.
Il lavoro svolto dalla biografa Susan Quinn è ragguardevole, si dipana da documenti inediti (diari compresi), e riesce nel tentativo di approfondire aspetti poco conosciuti, legati sia alla vita privata che professionale della grande scienziata. Gli studi sulla radioattività, le ricerche portate avanti in maniera caparbia, inizialmente attraverso scarsissime risorse economiche, e l’Europa che si inoltra in un secolo contraddittorio, sospeso fra antichi e nuovi assetti geopolitici: Marie Curie è presente con la volontà di autodeterminarsi, fautrice del proprio destino e al servizio della collettività, basti pensare che durante la Grande Guerra, insieme alla figlia Irene, si adoperò per soccorrere i soldati feriti al fronte, mettendo a disposizione delle apparecchiature radiografiche per eseguire diagnosi in tempo reale.
Eccellente biografia quella edita da Bollati Boringhieri, scorrevole e allo stesso tempo dettagliata, di una donna che riuscì nell’impresa di rendere manifesto – in laboratorio e nella quotidianità – l’inimmaginabile.
“Lucrezia Borgia. Fascino e astuzia alla corte di Ferrara” di Mariangela Melotti (Rusconi Libri, 2018).
Lucrezia Borgia (1480-1519) è parte di quel drappello di personaggi storici minati dal pressapochismo da rotocalco, emblema di una pericolosità e di una degenerazione che non lasciano spazio agli opportuni approfondimenti.
La sua figura precorre le moderne donne fatali, come se esistesse un canovaccio da seguire e da rimpolpare in vista di una narrazione futura. Eppure se c’è un aspetto da considerare, nell’epoca e nella vita di Lucrezia Borgia, è la molteplicità di linee di trazione, di connessioni politiche e dinastiche, che la rendono a seconda dei punti di vista strumento o protagonista in prima persona.
Figlia illegittima del futuro papa Alessandro VI, data in sposa a soli 13 anni a Giovanni Sforza, signore e vicario della Chiesa per Pesaro, moneta di scambio nelle transazioni di potere, che la portarono a congiungersi in matrimonio altre due volte (con Alfonso d’Aragona e Alfonso d’Este), e infine testimone del declino degli Estensi, preludio alla sua morte, avvenuta a soli trentanove anni.
Lucrezia, quindi, donna del suo tempo, nell’impressionante scenario di alleanze, complotti, idealità e tormentose redenzioni. Il tentativo di inquadrarne correttamente la figura, inserendola nel contesto storico, è di certo meritevole, e in tal senso Mariangela Melotti confeziona una biografia scorrevole, documentata, che si prefigge di essere obiettiva e che è in grado di suscitare quel sentimento di immedesimazione che rende una lettura appassionante.
“Simone de Beauvoir. La biografia di una vita e di un pensiero. Filosofia, letteratura, politica” di Michèle Le Doeuff (Marinotti, 2013).
Simone de Beauvoir (1908-1986) in una biografia esauriente, scritta dalla filosofa Michèle Le Doeuff, che apre a nuove interpretazioni, e che accorpa i temi affrontati ed elaborati dalla grande pensatrice francese.
Tra primo e secondo Novecento la sua opera spazia dalla rielaborazione dell’esistenzialismo (fu compagna di vita di Jean-Paul Sartre) alle questioni riguardanti l’autodeterminazione dei popoli e dei singoli individui.
L’analisi dei risvolti legati al concetto di libertà (a cui Le Doeuff riserva un’attenzione particolare) la impegna in varie forme, dalla saggistica all’autobiografia e al romanzo; ma soprattutto Simone de Beauvoir è protagonista a tutto tondo, con il suo anticonformismo e le battaglie per l’affermazione dei diritti civili, in particolare quelli delle donne.
Quindi madrina del femminismo (pubblicò nel 1949 Il secondo sesso, saggio fondamentale sulla condizione femminile) ma non in senso prettamente politico. Le etichette, gli inserimenti in specifiche aggregazioni, non si confacevano al suo nomadismo intellettuale, proiettato verso la conoscenza pratica, fattiva, non privo di passionalità.
Altri capitoli fondamentali della sua formazione furono gli incontri (con Lévi-Strauss, Aron, Nizan, Ernesto Che Guevara) e i viaggi: a partire dagli anni Trenta si recò in Spagna, Grecia, Marocco e Italia, e in seguito (dopo la fine della guerra) negli Stati Uniti, in Brasile, a Cuba, in Unione Sovietica e Cina. Sostenitrice del movimento del ’68, nel cuore degli anni Settanta si occupò delle questioni che infiammavano la politica e il mondo culturale: fra le altre la dissidenza sovietica, il conflitto arabo-israeliano, la legislazione sull’aborto, la dittatura in Cile.