Lo sport come metafora della vita? È possibile, poiché nella gara, nella carriera di uno sportivo si alternano, quasi sempre, cadute e imprese gloriose, umiliazioni e giornate perfette. Forse però lo sport è qualcosa di diverso, detiene una complessità che le è propria. Sia il principiante che il fuoriclasse sanno, o perlomeno annusano il sapere: l’ultimo rettilineo con le gambe che girano a mille, la bracciata che amoreggia con l’acqua, il canestro-schiacciata-goal che mai avremmo immaginato di poter realizzare; sono esperienze che hanno cittadinanza nell’astrazione, nel disegno mistico, e che concorrono con la poesia nel puntualizzare il significato pieno, la congiunzione incomparabile. Da simili altitudini si può cambiare una nazione, migliorare il mondo, dare una sterzata alla propria vita o intercettare il lampo fulmineo della bellezza. Quindi lo sport come metafora della vita, ma anche comunicazione telepatica con se stessi, corrispettivo normato di un abbraccio (o di un rimbrotto) fraterno.
Federico Buffa, Elena Catozzi – Muhammad Ali – Un uomo decisivo per uomini decisivi
Il grande campione si è fatto leggenda sul ring, ma altre combinazioni astrali ne hanno delineato il viaggio terreno: non solo il diabolico jab o il gioco di gambe soprannaturale, la determinazione e la sapienza tattica, ma anche l’incendio dialettico, la naturalezza di chi è nato per stare al centro della scena. Muhammad Ali uomo di sport, uomo e interprete del suo tempo, ispiratore e istrione senza capocomici o padreterni da ossequiare.
Quando un ladruncolo, nel 1954, gli rubò la bicicletta alla fiera per afroamericani di Louisville, è come se un poderoso big bang avesse ribaltato e poi ricostruito il canone degli eroi. Cassius (sceglierà di chiamarsi Muhammad dieci anni più tardi) elaborò nella sua mente di bambino il contrattacco più efficace, quello che tiene conto della lunga distanza: per vendicare la prepotenza decise di avvicinarsi alla boxe e da lì in poi il talento, il cuore, l’intelligenza, tracceranno un percorso unico nell’immaginario sportivo e culturale del Novecento.
Elena Catozzi e Federico Buffa plasmano materiale vibrante: danno conto della carriera pugilistica, eccezionale, ma soprattutto ritraggono amorevolmente l’icona Muhammad Ali, protagonista di scelte controverse (una su tutte, l’aver denunciato pubblicamente l’assurdità della guerra in Vietnam) e di gesti memorabili, sul confine della trascendenza (come quando, devastato dagli effetti del Parkinson, si incaricò di accendere il braciere olimpico al Centennial Olympic Stadium di Atlanta, nel 1996).
John Carlin – Ama il tuo nemico. Nelson Mandela e la partita di rugby che ha fatto nascere una nazione
Diverse volte, nel bene e nel male, le vicende dello sport hanno incrociato la politica: boicottaggi, attentati, e poi l’essenza stessa dello sport, che offre occasioni di riconciliazione e conoscenza reciproca.
Nel libro di John Carlin viene messo in risalto il potere aggregante del confronto sportivo, il suo essere elemento cardine capace di travalicare le epoche e di scolpirle nel rispetto di regole universali. Ma soprattutto sulle pagine di Ama il tuo nemico sono impressi il volto e le parole di Nelson Mandela, la sua visione e la naturalezza con cui si affaccia sul palcoscenico della storia.
La sua elezione a presidente del Sudafrica, dopo 23 anni di carcere e il virus dell’apartheid ancora da sconfiggere, compone uno scenario politico e sociale in divenire. Occorre scaldare i cuori del suo popolo, e Mandela sceglie di utilizzare il rugby, lo sport dei bianchi, come carburante di innesco. Propone e ottiene l’organizzazione dei Campionati del Mondo, nel 1995, affidando ai mitici Springboks il compito di irrobustire un’identità comune. E il cammino della squadra nazionale nel torneo si rivelerà straordinario: il 24 giugno, con il presidente della riconciliazione in tribuna, acclamato da oltre sessantamila spettatori, la formazione sudafricana sconfiggerà dopo una finale al cardiopalma i temibili All Blacks neozelandesi.
Il libro di John Carlin (saggio storico dal taglio giornalistico) ripercorre l’avvicinamento al climax dell’evento sportivo, ne delinea gli snodi, la valenza storica e la prorompente bellezza. Avvalendosi di fonti primarie, di documenti e testimonianze, e soprattutto confrontandosi con lo stesso Nelson Mandela, lo scrittore americano confeziona un’epopea classica e allo stesso tempo contemporanea.
Compattarsi, sfidarsi lealmente, conoscere e rispettare l’avversario: a delle semplici linee guida si rifà lo sport agonistico, prospettiva che un leader carismatico ha abbracciato per riscrivere il destino di una nazione.
Correre, e non importa che si indossino scarpe volanti o indumenti tecnologici. Un affondo dopo l’altro, nel dialogo intimo con la terra e la gravità, si accolgono pensieri e si consumano tossine. Murakami è un sedentario quando nel 1981, dopo aver chiuso il suo celeberrimo jazz bar, si propone di dedicarsi a tempo pieno alla scrittura. In più è un tabagista incallito, da 60 sigarette al giorno, e la decisione di accomodarsi al tavolo dello scrittore non è certo la più appropriata per chi ha urgente bisogno di una svolta salutista.
L’attività sportiva mette in comunicazione mente e corpo, realizza l’unicità alchemica che è diretta espressione di cellule, sinapsi e feedback muscolari. Dall’ossigeno incamerato alla metodicità che la corsa richiede, anzi pretende. Lo scrittore di Norwegian Wood e Kafka sulla spiaggia mette nero su bianco, da bravo atleta, la sua personale tabella di allenamento: quattro ore di scrittura al mattino e dieci chilometri di corsa al pomeriggio, in una routine che è strategia di sopravvivenza e introspezione in movimento.
A garantire il risultato non solo la costanza, ma anche gli obiettivi da perseguire, che nel caso specifico si traducono nella partecipazione a oltre venti maratone, persino nell’effettuazione di una ultramaratona e di diverse gare di triathlon.
Il credo podistico di Murakami è rigoroso e viene riportato ne L’arte di correre, raccolta di saggi che inglobano teoria e pratica, filosofia e quotidianità di un uomo in competizione con se stesso. Metri su metri, pagine su pagine: scrittore e corridore all’unisono, perché cuore e mente ricercano il limite, il guizzo vincente sul filo di lana.
David Foster Wallace – Il tennis come esperienza religiosa
Di riflesso verrebbe da chiedersi: ma che titolo ha il grande scrittore americano per poter disquisire di tennis? Una domanda da malfidenti, visto che Wallace in gioventù – prima di diventare il sommo innovatore del Novecento statunitense – è stato un giocatore di livello regionale, sul confine tra dilettantismo e professionismo. E poi l’attitudine postmoderna, di “cucinare” tematiche e ispirazioni come fossero ingredienti all’apparenza inconciliabili, spinge i suoi interpreti a sperimentare, ad abbeverarsi al crogiolo del gusto e dell’immaginario popolare.
Nei due saggi che compongono l’opera, scritti nel 1996 e nel 2006 per il The New York Times Magazine, prorompe il genio investigativo, il senso di una provvisorietà che aleggia e invita l’osservatore a registrarne le traiettorie, i dettagli mascherati dal flusso temporale.
Da David Foster Wallace vengono analizzate e raccontate due giornate dedicate al tennis: nel primo reportage – Democrazia e commercio agli US Open – sullo sfondo di una partita tra Pete Sampras e Mark Philippousis si staglia l’impalcatura di uno sport asservito al marketing e al contrappunto delle relazioni pubbliche; gli spettatori partecipano all’happening, perlopiù distratti, mentre i due protagonisti rileggono a modo loro lo scontro fra destrezza e forza bruta. Nello scritto successivo (Federer come esperienza religiosa) Wallace mette sotto la lente di ingrandimento la finale di Wimbledon del 2006 tra Rafael Nadal e Roger Federer. Anche in questo caso si fronteggiano due stili diversi (Federer come un bisturi, Nadal come un accetta), contesa sportiva che sublima il gesto e ne universalizza gli esiti, la resa estetica.
Sull’eleganza del fuoriclasse svizzero, poi, sulla bellezza dei suoi colpi, lo scrittore americano – fin dall’inizio del reportage – si sofferma incantato e sfacciatamente incredulo: “Quasi tutti gli appassionati di tennis che seguono il circuito maschile in televisione, da qualche anno a questa parte hanno avuto modo di sperimentare quelli che si potrebbero definire Momenti Federer. Sono gli attimi in cui, mentre guardi il giovane svizzero in azione, ti cade la mascella, strabuzzi gli occhi ed emetti suoni che fanno accorrere la tua consorte dalla stanza accanto per controllare che tutto sia a posto. Questi Momenti sono ancora più intensi se hai giocato a tennis quanto basta per renderti conto che ciò che gli hai appena visto fare è impossibile.”
Emanuele Turelli – Amici per la pelle
Il film delle Olimpiadi di Berlino del 1936 – anche solo frammenti, brevi sequenze – è custodito nella memoria di ogni cultore dello sport. I volti in successione sugli spalti dell’Olympiastadion di Berlino, il sorriso compiaciuto di Adolf Hitler nella sua nicchia d’onore, l’iconografia tetra e i simboli di un’ideologia che condurrà l’Europa, il suo afflato illuministico, sull’orlo dell’estinzione.
Ma al di fuori del copione, della schematicità da parata, brillerà in quel memorabile evento olimpico la stella di un nero dell’Alabama, nato poverissimo, nel gorgo della Grande Depressione, atleta che sbaraglierà il campo in ben 4 competizioni (100 e 200 metri, salto in lungo, staffetta 4×100) e che soprattutto riuscirà nell’impresa – con la sola forza del talento e della tenacia – di annichilire il sorriso e il verbo propagandistico del feroce dittatore.
Jesse Owens non ha rivali, i suoi tempi e le sue misure a distanza di quasi 90 anni risultano ancora ragguardevoli, uno spartiacque tra l’atletica degli albori e l’alchimia della performance. Record e cinesiologia che hanno fatto la storia dell’atletica leggera, ma che non sono sufficienti a descrivere compiutamente la bellezza e la significatività del confronto agonistico.
A ricordarci gli aspetti connessi all’etica e alla pedagogia dello sport, che in quell’estate berlinese del 1936 trovarono una piena e sorprendente espressione, ci ha pensato lo scrittore e giornalista Emanuele Turelli; nel suo libro Amici per la pelle, intrecciando elementi biografici e puramente narrativi, ripercorre l’amicizia nata sulla pista del salto in lungo tra Jesse Owens e l’atleta designato dal regime, il tedesco Carl “Luz” Long.
I due si sfidano per la conquista della medaglia d’oro, e indifferenti alle aspettative di chi teorizza la superiorità della “razza ariana”, celebrano il senso più autentico dello sport mostrandosi reciprocamente affabili, persino complici fra una chiamata in pedana e l’altra. Nelle loro vene scorre la stessa sostanza vitale, lo stesso entusiasmo: non servono disciplina e suggerimenti per sciogliersi in una risata, per incoraggiarsi, per alimentare un’amicizia che proseguirà anche negli anni a venire.
I “dietro le quinte” producono memoria, materiale narrativo; e Amici per la pelle ha il pregio di accostarsi alla straordinarietà dell’impresa sportiva cogliendone i frutti più prelibati, i bagliori che si irradiano all’infinito.
Stefano Massini – Ladies Football Club
Ancora oggi il calcio, in Italia, è ritenuto da molti un sport per soli uomini. Come se il nostro sport nazionale fosse uno degli ultimi baluardi contro la sacrosanta parità di diritti e opportunità. Non accade così nella maggior parte dei paesi avanzati, fortunatamente, e anche da noi la mentalità retrograda sta via via annacquandosi anche grazie agli eccellenti risultati ottenuti negli ultimi anni dalla nazionale femminile di calcio.
C’è ancora molto da fare in tema di diritti, in senso lato e specificatamente nello sport, e il romanzo di Stefano Massini può a buon titolo inserirsi nel filone narrativo e di pensiero che storicizza un’ambizione collettiva, la rende naturale in un contesto deformato dalla consuetudine, per non dire dall’ideologia. Con passo leggero, intervallato da balzi ironici e appassionati, lo scrittore e drammaturgo inventa un undici agguerrito di sole donne, che nel pieno della Prima Guerra Mondiale getta le basi per costruire una mirabolante storia di sport.
Rosalyn, Violet, Olivia e le altre lavorano alla Doyle & Walker Munizioni di Sheffield, supportando idealmente mariti, fratelli e padri che combattono al fronte. Un giorno trovano un pallone nel cortile della fabbrica, e il solo apparire del giocattolo più amato le convince che è giunta l’ora di fondare una squadra di calcio al femminile. Gli inizi non saranno facili, dovendo combattere contro i pregiudizi, ma con il passare del tempo tecnica e tattica verranno affinate e la compagine prenderà il volo, mietendo vittorie e scaldando i cuori dei tifosi… almeno finché le istituzioni calcistiche, una volta finita la guerra, non proveranno a restaurare l’esclusività maschile sui campi di gioco.
Riferimenti storici e orditure romanzate contribuiscono a plasmare un racconto godibile, che sullo spartito di una vicenda esemplare inserisce il tema attualissimo della parità di genere. Ladies Football Club è fare squadra, è identità e coscienza del cambiamento: il tutto, semplicemente, dando calci (possibilmente ben indirizzati) a un pallone.