Tra i grandi scrittori, molti traduttori: Cesare Pavese
<<Qui non ci sono nato, è quasi certo; dove son nato non lo so; non c’è da queste parti una casa né un pezzo di terra né delle ossa ch’io possa dire “Ecco cos’ero prima di nascere” […] chi può dire di che carne sono fatto? Ho girato abbastanza il mondo da sapere che tutte le carni sono buone e si equivalgono, ma è per questo che uno si stanca e cerca di mettere radici, di farsi terra e paese, perché la sua carne valga e duri qualcosa di più che un comune giro di stagione>> (da La luna e i falò, 1950).
Cesare Pavese nacque nel 1908, a Santo Stefano Belbo, dove la famiglia era salita trascorrere le vacanze estive. Quel paesino nelle Langhe, così distante socialmente e culturalmente da Torino, residenza abituale della famiglia Pavese, rappresentò un punto focale dell’ispirazione e del sentire poetico del grande scrittore, traduttore e saggista. Nelle opere a venire, in particolare nei romanzi “Paesi tuoi” e “La luna e i falò”, Santo Stefano Belbo e il paesaggio circostante daranno sostanza alla memoria, a un particolare struggimento legato a un luogo dello spirito, immaginato e non solo vissuto.
Nel capoluogo piemontese Pavese frequentò le scuole primarie e il ginnasio, e in seguito il liceo D’Azeglio, dal 1923. I primi contatti nell’istituto torinese diedero forma a un pensiero trasversale rispetto al clima politico che si respirava in quegli anni: l’incontro con il professore di italiano Augusto Monti risultò decisivo nell’approccio di Cesare Pavese all’antifascismo, insieme ai rapporti di amicizia con alcuni compagni di studi, Leone Ginzburg e Norberto Bobbio su tutti. Parallelamente cominciò a maturare in Pavese l’amore per la letteratura americana e per la lingua inglese, strumento di interpretazione della realtà, quest’ultimo, contenente aspetti peculiari non ancora rintracciabili nel sistema lessicale italiano (uno di essi è l’utilizzo dello slang, reso funzionale da molti scrittori statunitensi). Tale interesse per l’inglese sfocerà, come prima tappa di un percorso letterario e di analisi formale, nella scelta di laurearsi in Lettere e Filosofia (nel 1930) con una tesi sul poeta Walt Whitman.
Ben presto l’entusiasmo del neolaureato Cesare Pavese si trasferì in un contesto relazionale e lavorativo: “sul campo” inizierà a mettere a punto i suoi strumenti di elaborazione critica e a realizzare le sue prime opere di traduzione, fra cui quella del romanzo “Il nostro signor Wrenn” di Sinclair Lewis, nel 1931, la sua prima in assoluto, e del capolavoro “Moby Dick” di Herman Melville, nel 1932. Seguirono, tre le altre, le versioni in italiano del romanzo “Il 42º parallelo” di John Dos Passos e del “Ritratto dell’artista da giovane” di James Joyce (entrambe datate 1933).
Verso il 1930, quando il fascismo cominciava a essere “la speranza del mondo”, accadde ad alcuni giovani italiani di scoprire nei libri l’America, un’America pensosa e barbarica, felice e rissosa, dissoluta, feconda, greve di tutto il passato del mondo, e insieme giovane e innocente. Per qualche anno questi giovani lessero, tradussero e scrissero con una gioia di scoperta e di rivolta che indignò la cultura ufficiale. (Cesare Pavese).
Nel frattempo la deriva della libertà avvicinava il Paese alla catastrofe del conflitto mondiale, e gli intellettuali furono chiamati a prendere posizione, ad alimentare, con i mezzi che gli sono propri, il dissenso. Pavese si propose di farsi argine, di contribuire a mantenere in vita la fiammella dei principi democratici: divenne affiliato del movimento “Giustizia e libertà” e nel 1934 sostituì Leone Ginzburg (tratto in arresto dalle milizie fasciste) alla direzione della rivista “La cultura”, estensione della casa editrice Einaudi.
Di mese in mese la repressione si rivelava sempre più sistematica e Pavese, nel ’35, venne destinato al soggiorno obbligato a Brancaleone, paese a una sessantina di chilometri da Reggio Calabria. La coercizione, lo svilimento dei fondamentali diritti individuali, gettarono nello sconforto l’intellettuale e letterato antifascista, generando, come reazione e presa di coscienza, significativi spunti ideativi: di quell’esperienza di confinamento vennero prodotte e conservate preziose tracce, che in seguito acquisteranno forma coerente nella stesura dell’opera postuma “Il mestiere di vivere”, mentre l’esperienza in toto del soggiorno obbligato andrà a costituire il racconto lungo “Il carcere” (1948). Cesare Pavese troverà modo di comunicare la propria interiorità anche attraverso la poesia: è datata 1936 la pubblicazione, per tramite della rivista “Solaria”, della raccolta (ovviamente falcidiata dalla censura) “Lavorare stanca”.
Un condono giudiziario, conseguente ai “successi” nella campagna di Etiopia, permise a molti condannati per reati politici di fare ritorno nei propri luoghi di residenza. Torino riaccolse Pavese, che però fu costretto – vista la sua conclamata avversione alla dittatura – ad abbandonare l’insegnamento, ulteriore sfregio alla civiltà, alla dignità e al libero arbitrio. L’urgenza di lavorare, di vivere, lo legherà sempre più al mondo dell’editoria, e facendo seguito ai suoi esordi nella traduzione, Pavese concentrerà i suoi sforzi nella trasposizione in italiano di opere di grande rilievo, e alla diffusione nel nostro paese di autori come Sherwood Anderson, Sinclair Lewis, John Steinbeck e Charles Dickens.
Lo scoppio della seconda guerra mondiale, nel complesso della sua drammaticità, recherà altri crucci, un senso di inadeguatezza acuito dalla rilettura dell’esperienza del confino in terra calabra. Anche dopo l’armistizio Pavese – che nel frattempo aveva visto pubblicati i romanzi “Paesi tuoi” e “La spiaggia” – si terrà fuori dalla tenzone per la riconquista della libertà, trovando rifugio nella casa della sorella nel Monferrato. «Guardare certi morti è umiliante. Non sono più faccenda altrui; non ci si sente capitati sul posto per caso. Si ha l’impressione che lo stesso destino che ha messo a terra quei corpi tenga noialtri inchiodati a vederli, a riempircene gli occhi. Ci si sente umiliati perché si capisce — si tocca con gli occhi — che al posto del morto potremmo essere noi: non ci sarebbe differenza, e se viviamo lo dobbiamo al cadavere imbrattato. Per questo, ogni guerra è una guerra civile» (da “La casa in collina”).
Terminato il conflitto, l’obiettivo di ricostruire le fondamenta culturali del Paese si presentò come un’esigenza irrinunciabile, un’ulteriore messa alla prova delle singole competenze e sensibilità. Pavese venne riaccolto all’Einaudi, e il dopoguerra si rivelò fecondo in termini di prolificità creativa e progettuale. Sempre per Einaudi curò una collana di antropologia culturale, in collaborazione con Ernesto De Martino, mentre sul versante delle produzioni narrative diede alle stampe i volumi “Il compagno”, premiato a Viareggio nel 1947, “La casa in collina”, pubblicato nel 1948, e “La bella estate” (Premio Strega) e “La luna e i falò”, entrambi usciti nel 1950.
I riscontri positivi, da parte di critica e pubblico, non riusciranno però a quietare un certo “male di vivere” dell’ormai celebrato scrittore: sono le afflizioni amorose, in particolare, a minarne gli equilibri emotivi, come, ad esempio, quella per la psicoanalista e scrittrice Bianca Garuffi, a cui dedicò, nel 1947, i “Dialoghi con Leucò”. La lucidità dolente, la profondità forse ineguagliata di capolavori come “La luna e i falò” e “La casa in collina”, i pensieri raccolti in un diario, compilato a partire dai giorni a Brancaleone Calabro, che Massimo Mila e Natalia Ginzburg pubblicheranno postumo con il titolo “Il mestiere di vivere”, sono i segnali di un tormento inestinguibile che condurrà Cesare Pavese al suicidio in una camera dell’Hotel Roma di Torino, il 27 agosto 1950.
“Un ragazzo – ero io? – si fermava di notte sulla riva del mare – sotto la musica e le luci irreali dei caffè – e fiutava il vento – non quello marino consueto, ma un’improvvisa buffata di fiori arsi dal sole, esotici e palpabili. Quel ragazzo potrebbe esistere senza di me; di fatto, esistette senza di me, e non sapeva che la sua gioia sarebbe dopo tanti anni riaffiorata, incredibile, in un altro, in un uomo. Ma un uomo suppone una donna, la donna; un uomo conosce il corpo di una donna, un uomo deve stringere, carezzare, schiacciare una donna, una di quelle donne che hanno ballato, nere di sole, sotto i lampioni dei caffè davanti al mare. L’uomo e il ragazzo s’ignorano e si cercano, vivono insieme e non lo sanno, e ritrovandosi han bisogno di star soli.” da “Feria d’agosto” (1946)